La Keith Haring Foundation, l’ente che detiene i diritti patrimoniali del celebre artista americano, ha perso la sua battaglia legale nel primo grado di giudizio contro una galleria italiana e lo studio di un tatuatore che avevano organizzato insieme una mostra di opere dell’artista.
Vediamo come si sono svolti i fatti.
La Keith Haring Foundation, insieme al Keith Haring Studio LLC (la società licenziataria dei diritti di proprietà intellettuale dell’artista) e il sig. Allen Haring, padre dell’artista e titolare dei diritti morali, convenivano in giudizio una galleria d’arte italiana e un tatuatore che aveva messo a disposizione il suo studio per ospitare la mostra. La fondazione Haring sosteneva che le opere dell’artista esposte non fossero autentiche e chiedeva perciò al Tribunale di Roma di:
- dichiarare la non autenticità delle opere;
- accertare la violazione del diritto patrimoniale d’autore nonché dell’utilizzo non autorizzato del marchio “Keith Haring”;
- condannare i convenuti, in solido, al risarcimento dei danni oltre alla distruzione delle opere e rimozione delle stesse dal sito web della galleria;
Il Tribunale ha dichiarato la prima domanda sull’autenticità inammissibile in quanto ha sostenuto che “Il puro apprezzamento delle caratteristiche di un’opera non è di pertinenza del giudice e può trovare un limitato riconoscimento esclusivamente nelle forme dell’accertamento di cui all’articolo 696 c.p.c. ovvero del ricorso per descrizione previsto dal codice della proprietà industriale”.
Continua il Tribunale di Roma affermando che “Una volta che l’artista non sia in grado di autenticare l’opera d’arte l’autenticità della stessa può essere oggetto esclusivamente di un parere e non di un accertamento in termini di verità, parere che è espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero ex art. 32 Cost.”
Solo una perizia, cd. expertise, redatta da un esperto appunto, può costituire un giudizio, mai assoluto, comunque, nemmeno se a presentarla sono gli eredi, sull’autenticità di un’opera d’arte.
È stato poi ravvisato dal giudice che la galleria convenuta in giudizio aveva già organizzato mostre precedenti su artisti della Pop Art americana senza che queste fossero in alcun modo lesive dell’immagine o del lavoro degli artisti in questione. Come evidenziato dal Tribunale “la mera circostanza dell’organizzazione della mostra in uno studio di tatuaggi non è idonea di per sé a ledere la reputazione dell’artista in assenza di altri elementi probatori”. Anche la seconda domanda degli attori era così ritenuta inammissibile, così come quella, ritenuta assimilabile, sulla presunta violazione dei diritti patrimoniali.
Infine, la domanda avente ad oggetto la violazione dei diritti sul marchio “Keith Haring” è risultata parimenti infondata.
Nel caso di specie, ha sostenuto il Tribunale, “l’utilizzo del segno “KEITH HARING” da parte dei convenuti rientra nelle ipotesi di uso lecito del marchio in funzione descrittiva ai sensi dell’art. 21 CPI in quanto non è valso a contrassegnare beni o servizi altrui”.
Il Tribunale di Roma ha così rigettato le domande delle parti attrici ma ha avverato paradossalmente i propositi di Keith Haring che, sin dai suoi inizi nella metropolitana di New York, auspicava un’arte anche commerciale ma sempre più vicina alla gente, che in qualche modo appartenesse a tutti.
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