Diritto d’autore opere d’arte: la recente surreale esperienza di pandemia dovuta al COVID-19 ha messo in moto una serie di ripensamenti e riflessioni anche nel settore culturale. Nel campo delle arti visive, si è tornati a parlare di digitalizzazione, di archivi d’artista e conseguentemente di autenticità delle opere d’arte.
La digitalizzazione e il diritto d’autore opere d’arte
La digitalizzazione consiste nella trasformazione di un suono, di un’immagine, o, più in generale, di un documento in formato digitale interpretabile da un computer e, quindi, con possibilità infinite di riproduzione e di circolazione. È un processo che acquista importanza sia per l’arte antica e moderna, sia per quella contemporanea. Per la prima, attraverso la conservazione di riproduzioni digitali si costituisce una catalogazione importante sotto il profilo dei fini didattici, di studio e di ricerca.
Un progetto di digitalizzazione è stato ad esempio avviato dal Museo degli Uffizi di Firenze e denominato The Uffizi Digitization Project (TUDP), grazie al quale tutte le opere conservate nel museo sono fruibili in modalità digitale.
Diritto d’autore sulle opere d’arte: gli archivi d’artista
Gli archivi d’artista (molti dei quali uniti sotto l’AITART-Associazione Italiana Archivi d’Artista) sono invece degli enti, oltre che conservativi, finalizzati anche ad attribuire autenticità o addirittura corpo al lavoro dell’autore contemporaneo che spesso è sotteso alle dimensioni fluide e indefinite dell’arte del nostro tempo.
L’opera sfugge spesso alla definizione della forma tradizionale divenendo performance, video, magari deteriorandosi per il preciso volere dell’artista. L’archiviazione è così uno strumento per attribuire all’opera una “presenza” ufficiale.
Molte sono le controversie sorte a seguito di vendite di opere su cui vi sono dubbi riguardo l’autenticità e che hanno visto gli archivi protagonisti delle vicende. A chi spetta l’ultima parola sull’autenticità di un’opera d’arte? Nemmeno l’accertamento da parte del giudice in sede processuale può risolvere definitivamente la questione.
È interessante, sul punto, la sentenza della Cassazione Penale n. 28821/2017 in cui la Suprema Corte si è pronunciata sul rifiuto da parte dell’archivio costituito dagli eredi di un noto artista italiano ormai scomparso, di considerare autentica un’opera acquistata da un collezionista, provocando di fatto una svalutazione economica dell’opera stessa sul mercato dell’arte.
Da un lato, la legge sul diritto d’autore all’art. 23 prevede che il diritto morale di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possa essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione previsto dall’art.20 dopo la morte
può essere fatto valere, senza limite di tempo, dal coniuge e dai figli, e, in loro mancanza dai genitori e dagli altri ascendenti e dai discendenti diretti; mancando gli ascendenti ed i discendenti, dai fratelli e dalle sorelle e dai loro discendenti
Dall’altro lato, sempre la Cassazione in una precedente pronuncia, aveva già sancito che
la formulazione di giudizi sull’autenticità dell’opera d’arte di un artista defunto costituisce espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero e pertanto può essere effettuata da qualunque soggetto accreditato esperto d’arte del mercato, fermo restando il diritto degli eredi di rivendicare la paternità di un’opera d’arte ove erroneamente attribuita ad altri o viceversa disconoscerne la provenienza.
Infatti la formulazione dei giudizi sull’autenticità di un’opera d’arte costituisce espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero (art.32 cost.) per cui l’obbligazione gravante sull’esperto chiamato a rendere una perizia, attribuzione o autenticazione, è una semplice obbligazione di mezzi e non di risultato per cui, in base al principio dell’autonomia negoziale, non può essere obbligato a stipulare un contratto avente ad oggetto la manifestazione della propria opinione secondo i desideri del richiedente.
La Cassazione Penale citata ha pertanto ritenuto inammissibile la pretesa da parte del collezionista di vedere riconosciuta dall’autorità giudicante l’autenticità dell’opera d’arte acquistata, ribadendo che
l’azione di accertamento non può avere ad oggetto, salvo i casi eccezionalmente previsti dalla legge, una mera situazione di fatto, ma deve tendere all’accertamento di un diritto che sia già sorto, in presenza di un pregiudizio attuale e non meramente potenziale.
L’autenticità è quindi determinata secondo una serie di parametri e vari sono i soggetti potenzialmente abilitati a decretarla. Per il collezionista, pertanto, è fondamentale assicurarsi della provenienza dell’opera e ricevere, per quanto possibile, il vaglio di enti o persone fisiche dotate dell’autorevolezza riconosciuta a conferire l’autentica.
Diritto d’autore opere d’arte: l’autenticità
L’autenticità è una questione cruciale per la commercializzazione delle opere d’arte.
È infatti di primaria importanza che chi acquista, ma anche per chi vende se in buona fede, essere certo che sta comprando – o che è in possesso di – un pezzo originale.
Succede che gli esperti spesso non denunciano o non danno impulso ad azioni legali nei confronti dei contraffattori e dei falsi non tanto perché temono il risultato di una causa (raramente perdono), ma per i costi di una difesa legale che, specialmente negli USA, sono astronomici.
Solo per citare qualche numero: la Andy Warhol Foundation ha speso $ 700,0000 per una causa di rivendicazione a seguito di un giudizio di autenticazione che era stato rigettato. La preoccupazione per la Fondazione è dunque il costo di azioni legali promosse da proprietari di Warhols che vengono respinte – quasi $ 8 milioni di spese legali nel corso degli ultimi cinque anni.
Il caso più famoso è la battaglia legale iniziata nel 2007 dal regista Joe Simon, che ha accusato il Consiglio di autenticazione, ideato dalla Fondazione, di monopolizzare il mercato Warhol e ingiustamente negare l’autenticità del suo Warhol Red Self-Portrait (1964-1965).
Nella polemica che ne seguì, si è scoperto che il quadro era stato utilizzato per la copertina di un catalogo del 1970 proprio approvato da Warhol.
Diritto d’autore opere d’arte e il problema dell’autenticazione delle opere
Per porre rimedio alla crisi nel campo della autenticazioni, il New York City Bar Association ha elaborato una legge per proteggere i galleristi richiedendo all’attore perdente di pagare le spese legali di chi autentica l’opera. La proposta di legge ha anche reso più difficile per l’attore che richiede l’autenticazione di prevalere in giudizio. Ha proposto, per chi ricorre per vedersi autenticata un’opera, non la solita “preponderanza di prove” (che necessita del 51% di prove a favore) richiesta nelle cause civili, ma uno standard più scoraggiante di “prove chiare e convincenti”.Il New York State Trial Lawyers Association si è opposto al disegno di legge. “Erano preoccupati per eventuali ostacoli alle cause di archiviazione”, afferma Dean Nicyper, che si è fatto portavoce dell’associazione.
E così il disegno di legge è stato riformulato. Erano stati previsti livelli elevati di prove e l’obbligo dell’attore perdente di pagare le spese legali del perito.
Ma anche questa nuova proposta nel 2015 non è riuscita a passare per le obiezioni mosse dai sostenitori di Sheldon Silver (che è stato recentemente riconosciuto colpevole di corruzione federale).
Se il disegno di legge passasse nella sua attuale formulazione, chi autentica un’opera dovrebbe ancora affrontare il rischio di pagare le proprie spese legali, anche in caso di vincita.
Consulenti d’arte e conflitti di interesse
Nel mercato dell’arte, notoriamente non limpido, i consulenti d’arte sono talvolta pagati da entrambe le parti. Questo è ciò che Michael Schulhof, ex capo di Sony Corporation America, sostiene nella sua causa contro l’art advisor Lisa Jacobs, curatrice della Schulhof Collection.
Schulhof sostiene che la Jacobs ha frodato e violato il contratto, quando le è stato chiesto di trovare un acquirente per un dipinto di Jean-Michel Basquiat di proprietà di sua madre, Hannelore Schulhof, che poi è morta nel 2012.
La Jacobs nega tutte le accuse.
Secondo la denuncia, la Jacobs avrebbe detto alla signora Schulhof che il prezzo migliore che avrebbe potuto ottenere dalla vendita erano $ 5500.000. In realtà aveva trovato qualcuno che avrebbe pagato $ 6.500.000. La signora Schulhof ha pagato la Jacobs con una percentuale di $ 50.000 sulla vendita, ma la Jacobs avrebbe architettato la vendita per ottenere $ 1.000.000 anche dal compratore.
La Jacobs ha sostenuto che la signora Schulhof non voleva rivelare il nome dell’acquirente. In realtà, secondo il querelante, la Jacobs avrebbe architettato un falso acquisto in modo da comprare il Basquiat dalla signora Schulhof e poi venderlo a se stessa in veste di compratore.
La compravendita di un’opera d’arte dovrebbe essere pubblica nel senso che dovrebbero essere ben conosciuti i nomi di chi acquista e di chi vende nel caso di utilizzo di intermediari.
La responsabilità della galleria nel diritto d’autore opere d’arte
Il diritto d’autore per le opere d’arte ha creato non poche discussioni che sono finite in Tribunale. Il problema è stato stabilire se esiste on meno una responsabilità del gallerista nei confronti dei collezionisti a cui vengono vendute le opere.
Una galleria è tenuta ad agire nell’interesse del compratore collezionista? I ricchi collezionisti d’arte devono fidarsi dei consulenti e degli agenti di arte? Questi ultimi hanno il dovere di indagare e raccogliere prove definitive sull’autenticità di un’opera facendo ricerche sulla sua provenienza o possono solo basarsi sulle dichiarazioni di una galleria rispettabile?
Si tratta di un ammonimento per ogni collezionista per gli errori dovuti al fatto di fare affidamento su un’amicizia di vecchia data con il gallerista. Infatti, in ragione di tale unione, si tende a credere che vi sia una garanzia o un obbligo legale del gallerista di agire nell’interesse del collezionista.
Le battaglie legali che hanno visto schierati uno contro l’altro galleristi e collezionisti acquirenti, si sono, nella maggior parte delle volte, concluse con una transizione.
Richard McKenzie contro la Forum Gallery di New York
Richard McKenzie ha chiamato in giudizio la Forum Gallery di New York e i suoi proprietari, Robert e Cheryl Fishko, in un’aspra contesa che coinvolge ben quattro cause legali. L’attore ha contestato la loro promessa, verbale, di vendere a lui opere d’arte a condizioni favorevoli.
Secondo McKenzie gli accordi sarebbero stati di vendere le opere degli artisti trattati dalla Forum a lui con un 20% di sconto. Mentre le opere che Forum avesse trovato sul mercato secondario sarebbero state vendute ad un costo maggiorato di una commissione del 5%. I convenuti avrebbero violato l’accordo vendendo alcune opere a tassi più elevati.
The first suit, filed in federal court in New York, seeks to recover $3.8 million in what McKenzie’s lawyer Eric Grayson referred to as “overcharges and inflated pricing” on artworks McKenzie purchased from Fishko over the years. The second, filed in Connecticut, concerns a Renoir sold to McKenzie by Fishko that McKenzie now says is a forgery. McKenzie claims that Fishko orchestrated a meeting in a dark Parisian apartment with a desperate woman willing to unload an undiscovered Renoir for $325,000.
McKenzie ha affermato di avere uno speciale rapporto fiduciario con gli imputati che agivano nel suo interesse.
Cheryl Fishko “ha fatto leva su questo rapporto personale … [per] promuovere un falso senso di fiducia … un vero amico non avrebbe approfittato di me”, si legge nella denuncia.
Gli imputati hanno violato il rapporto di fiducia e di mandato, ha affermato McKenzie, quando hanno agito nel loro interesse, invece che nel suo.
Il Giudice federale di Manhattan Laura Taylor Swain si è pronunciata respingendo le accuse di McKenzie. Ha dichiarato che l’accordo non scritto era troppo vago per essere definito contratto. Ha detto anche che “un’amicizia di lunga data, di 50 anni, non è sufficiente per provare un rapporto fiduciario.”
In conclusione, quando si tratta di diritto d’autore e opere d’arte gli accordi sono validi solo se fatti per iscritto. L’amicizia non crea alcun obbligo o rapporto fiduciario. Una galleria di solito non è obbligata ad agire nell’interesse del compratore.
Frances Hamilton White contro Ann Freedman e la Knoedler & Co.
Nel 2000 Frances Hamilton White insieme a suo marito acquistarono quello che supponevano essere un dipinto autografo di Jackson Pollock, un dripping pagato 3,1 milioni di dollari.
Dal 2011 altri nove casi di frode sono stati portati in tribunale da parte di collezionisti truffati dalla titolare della galleria newyorkese Galleria Knoedler, Ann Freedman. I convenuti sono accusati di aver consapevolmente venduto circa $ 60 milioni di dipinti falsi.
Si tratta della più grande operazione patacca degli ultimi anni. Rothko e Pollock dipinti da un oscuro imbrattatele cinese e venduti grazie alla storica galleria Knodler.
Trentatré milioni di dollari trasferiti in una banca spagnola a suo nome, erano solo una parte degli almeno 80 a cui ammontava la truffa ai danni di collezionisti famosi (tra cui anche Domenico Del Sole presidente del gruppo Gucci) ai quali negli Stati Uniti i fratelli Diaz riuscirono a vendere circa 60 dipinti tra Rothko, Pollock e Motherwell. Tutti falsissimi, naturalmente.
L’enorme scandalo ha scosso il mondo dell’arte. È pacifico che Knoedler abbia venduto falsi, ma gli imputati negano e dicono di essere stati ingannati a loro volta. Knoedler e Freedman sostengono che, poiché i collezionisti – Domenico e Eleanore De Sole – sono esperti e famosi, avrebbero dovuto loro stessi svolgere la propria due diligence e apprendere della falsità delle opere con uno sforzo minimo (Domenico De Sole in seguito divenne presidente di Sotheby).
I collezionisti, d’altra parte, si difendono dicendo che si sono affidati al prestigio della galleria dei Knoedler e su ciò che Freedman aveva detto loro, il che includeva l’originalità delle opere.
Il giudice federale di Manhattan, Paul Gardephe, ha respinto le mozioni della galleria trovando credibili le argomentazioni dei collezionisti: “I querelanti non lavorano per le gallerie d’arte …sono consumatori che ovviamente si basano sulla fama di una delle più rinomate gallerie d’arte di New York City”.
Ma poiché non vi erano sufficienti prove a sostegno di nessuna delle due tesi, Gardephe ha deciso di demandare la decisione alla Giuria. La Galleria ha chiuso i battenti e la maggior parte delle questioni legali e delle cause intentate sono state risolte transattivamente.
Diritto d’autore opere d’arte: Il caso Cady Noland
Secondo la legislazione americana dei Visual Artists Rights Act (VARA) un artista può decidere di non essere più riconosciuto quale artista o autore se la sua opera è stata modificata in maniera “pregiudizievole” alla sua reputazione (The federal Visual Artists Rights Act of 1990 that grants artists “moral rights” over works even after they have been sold, including the right to prevent intentional modification or destruction, and to forbid the use of their name in association with distorted or mutilated work).
Ma, come ha scoperto il collezionista d’arte Marc Jancou, senza il nome dell’artista un’opera può perdere il suo valore durante solo una notte.
Nel 2011 Jancou consegna a Sotheby una riproduzione serigrafica in alluminio, misto di immagine e testo, dell’opera di Cady Noland “Cowboys Milking” (1990).
Sotheby ritira l’opera dall’asta già programmata quando la Noland, invocando la legislazione VARA, afferma che l’opera è talmente danneggiata che lei non può essere considerata più come sua autrice. (Noland insisted that the auction house withdraw “Cowboys Milking” because its “current condition … materially differs from that at the time of its creation” ).
Quando Jancou cita in giudizio Sotheby e la Noland, il giudice respinge la domanda perché il contratto di consegna e di vendita sottoscritto da Sotheby prevede il diritto di potersi rifiutare di ritirare il lavoro se ci sia qualche dubbio in merito alla originalità dell’opera e la Noland aveva detto che non voleva più che fosse attribuita a lei.
“Cowboys Milking” improvvisamente non ha alcun valore.
La Corte non ha affrontato la questione relativa al fatto che la Noland abbia invocato correttamente la legislazione VARA e non c’è giurisprudenza che definisca quali sono i paramenti applicabili nel caso di specie.
Un altro caso che riguarda la medesima artista risponde alla seguente domanda: e se l’autore si oppone al restauro di una sua opera?
È successo al collezionista Scott Mueller dopo aver acquistato da una galleria tedesca un’opera di Cady Noland.
L’opera sarebbe costata a Mueller oltre un milione, ma la Noland si sarebbe fortemente opposta al suo restauro. “L’artista ha dichiarato – spiega il collezionista nella sua denuncia presentata lo scorso lunedì 22 giugno a New York – che in caso di rivendita o di esposizione in pubblico dell’opera, accanto all’opera dovrà comparire un avviso che specifichi che il lavoro è stato restaurato senza il consenso dell’artista, che i pezzi di cui si compone ora non sono quelli originali, e che la stessa Noland non approva il lavoro”.
Appreso dell’avvenuto restauro, la Noland aveva inviato a Mueller una nota scritta a mano nella quale dichiarava che il lavoro da lui acquistato non era un’opera d’arte, in quanto la scultura era stata restaurata senza aver consultato l’artista.
Cosa significa che un’opera ha perso l’autorialità o il non voler più essere riconosciuto come autore di un’opera (perdita di paternità o sconfessione legittima) per la legislazione VARA? Chi determina se le modifiche sono “pregiudizievole” per la reputazione di un autore/artista? Un giudice dovrebbe essere in grado di fornire ai collezionisti precise indicazioni circa il rischio della perdita totale del valore di un’opera quando la condizione di un’opera è cambiata.
Diritto d’autore opere d’arte: 3 casi emblematici
Nel 2002, un noto fotografo tedesco, Hoepker (con la sua modella) ha citato in giudizio l’artista americana Barbara Kruger per violazione di diritti d’autore e diritti alla privacy. La fotografia incriminata ritraeva la donna con una lente d’ingrandimento che ne ingigantiva l’occhio. La Kruger aveva tagliato e allargato l’immagine e sovrapposto tre grandi blocchi rossi contenenti la frase “È un piccolo mondo, ma non se lo devi pulire tu”.
La fotografia negli Stati Uniti era di pubblico dominio o comunque non protetta da copyright, quindi quando fu realizzata l’opera d’arte, Barbara Kruger vinse il caso contro il fotografo tedesco (200 F. Supp. 2d 340, 2002).
Nel 1999 Philip-Lorca diCorcia installa la sua macchina fotografica su un treppiede a Times Square e attaccato luci stroboscopiche ad un’impalcatura dall’altra parte della strada. Cosi scatta una serie casuale di foto agli estranei che passavano sotto le sue luci. Il progetto prosegue per due anni, culminando in una mostra di fotografie intitolata “Heads” alla Pace / MacGill Gallery di New York City.
“La buona arte ti fa vedere il mondo in modo diverso, almeno per un pò, e dopo aver visto i nuovi” capi “del signor DiCorcia, per le prossime ore non passerai un’altra persona per la strada nello stesso modo assente.”
Ma non tutti sono rimasti impressionati. Quando Erno Nussenzweig, un ebreo ortodosso e mercante di diamanti in pensione di Union City, nel New Jersey, ha visto la sua foto nel catalogo della mostra, ha chiamato il suo avvocato.
E poi ha fatto causa a DiCorcia e Pace per aver esposto e pubblicato il ritratto senza permesso e approfittando di esso finanziariamente. La causa ha chiesto un’ingiunzione per fermare le vendite e la pubblicazione della fotografia, oltre a $ 500.000 in risarcimento danni e $ 1,5 milioni in danni punitivi.
È stata archiviata da un giudice della Corte Suprema dello Stato di New York che ha affermato che il diritto del fotografo all’espressione artistica prevale sui diritti alla privacy del soggetto.
In una sentenza del 1982 la Corte d’Appello di New York si è schierata con il New York Times in un giudizio instaurato da Clarence Arrington, la cui fotografia, scattata a sua insaputa mentre camminava nella zona di Wall Street, è apparsa sulla copertina di Il New York Times Magazine nel 1978 per illustrare un articolo intitolato “The Black Middle Class: Making It.” Arrington ha detto che l’immagine è stata pubblicata senza il suo consenso a rappresentare una storia con la quale non era d’accordo. La Corte d’appello di New York ha dichiarato che i diritti del primo emendamento del Times hanno prevalso sui diritti alla privacy di Arrington.
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